Stanotte ho sognato che decidevo improvvisamente di tornare in italia per sorprendere i miei amici come non ero riuscito tre mesi fa.
Stavolta niente preavvisi, programmi o appuntamenti definiti per dividermi il tempo con tutte le persone che ho bisogno di incontrare quando torno a casa. il biglietto comprato all'ultimo momento spendendo una settimana di doppio lavoro e una valigia leggerissima perché nessuno sarebbe stato ad aspettarmi a ciampino con auto comode in cui smaltire le solite 30 gocce di Lexotan e braccia di supporto per le valigie in doppia cifra.
Nessun regalo con me e poca ansia addosso per il volo che stranamente non preoccupava affatto, tanto da scomparire subito nella memoria del risveglio, che cerca di arraffare al volo ogni istante del mondo onirico mentre sfugge alla registrazione dei particolari scivolando tra dettagli leggerissimi.
Così che il film di stanotte comincia immediatamente a casa di mia madre. Una casa che ora non c'è più, almeno come l'ho sempre vissuta io, e che faticherò forse sempre a familiarizzare. Come il viso di chi improvvisamente dopo anni, decide di tagliar via barba e baffi e diventa straniero anche al proprio riflesso nello specchio ed alle mani che cercano, lisciando il mento, quella resistenza ispida conforto di preoccupazioni e pensieri resistenti.
Ci sono siepi e muretti scomparsi nel set in cui si gira il lunedì di una pasquetta tardiva, scelta dai pensieri inconsci a cui serviva un'occasione collettiva in cui raccogliere più interpreti possibili. E c'è un cancello con le sbarre che permette di guardare fuori, al posto della lastra di metallo che mia madre a deciso di frapporre tra lei ed il mondo esterno, chiudendo per sempre all'imprevisto ogni voglia di proporre incontri casuali.
Io sono all'interno e guardo fuori, verso la casa di quelle che è stato il primo grande amico della mia adolescenza e che ora, mi hanno detto vive e convive in un altro posto. Nel cortile di quella casa ci sono persone che si muovono, veloci e ritardatarie, per non perdere il sole che aspetta impaziente. Da qui non riesco a distinguere le espressioni, anche se la consapevolezza riesce ad associarle ad immagini consuete.
E comincia l'ansia.
La paura di una sorpresa imbarazzante. Di una rottura scomoda per la routine collaudata di chi fa a meno di te da troppo tempo per riuscire facilmente a cambiare programma. Perché loro sembrano così fluidi nei loro automatismi e recitano a memoria un copione in cui non sembrano esserci ruoli scoperti. A meno di non rassegnarsi ad una comparsata periferica che però diventerebbe imbarazzante per tutti visto che sei comunque un nome che anni fa riempiva le locandine.
Poi cambio la scena.
Cammino lungo il vialetto. Lentamente perché avverto dietro la curva il silenzio del brusio nascosto. E quasi non vorrei continuare per non complicare tutti. Ma sono qui per loro, o per me, e poi comunque nei sogni non è che si decide sul serio l'azione. Abbiamo una volontà ritardata, come il dèja vù che ci rende solo rassegnati protagonisti di situazioni inevitabili.
Così continuo e comincio a scorgerli in sequenza. nel sogno sono molti, seduti su l bordo della rampa che un tempo conduceva al garage, credo almeno 7/8. riesco a ricordare andrea che si gira e mi guarda dal basso senza dire nulla e serena, appoggiata al cancello, anche questo ormai rimosso, con gli occhiali da sole che le ho visto indossare in qualche recente foto di gruppo,
forse c'è anche michele ed un altro che non conosco o riconosco. ed un posto lasciato vuoto. Sicuramente c'è il mattew perché è l'unico a dire qualcosa quando dopo il silenzio prolungato di tutti provo ad accennare un commento. A sottolineare la mancanza di reazione alla sorpresa. Che evidentemente non è tale.
Ma non è neanche sgomento.
O disappunto.
Nulla.
Non c'è alcuna reazione da parte di nessuno. Così alessandro cerca di dire qualcosa che spieghi, ma io non posso sentire perché sono già di spalle e cammino verso casa con david che mi raggiunge per dirmi quello che non riesco a ricordare se non nelle sensazioni. Mi porta scuse collettive e mi chiede di capire. Indossa la felpa verde con la zip ed i suo pantaloni larghissimi. Senza occhiali e con i capelli più corti dell'ultima volta che ci siamo visti, sembra quello di qualche anno fa quando vivevamo entrambi a roma.
Ed eravamo vicini.
È l'ultimo pensiero che mi resta in mente, finché torna la sensibilità del corpo, che avverte la fine di ogni sogno con il peso schiacciato sul letto; ed a quella immagine mi aggrappo per restare attaccato al sogno e riavvolgere al contrario il nastro prima che la luce della coscienza lo bruci rendendolo illeggibile.
Poi pensieri, considerazioni, frasi e parole cercano di tradurre quel moncone di sceneggiatura senza finale. Ed è facile trovare la strada che porta a conversazioni strappate e saluti mai consegnati.
Ai silenzi che allungano lo spazio tra qua e casa ed immagini in cui sempre più spesso la tua assenza è invisibile. All'impossibilità di scandire i tempo insieme e di sentirsi utili.
Alle incomprensioni.
Ed aumenta la paura di doversi rassegnare a ruoli sempre minori, pena inevitabile di chi ha deciso volontariamente l'esilio. In cui la necessità della parte è soltanto di chi non vuole accettare il suo declino, mentre l'isolamento non produce nuovi stimoli creativi. Viene voglia di tornare prima che sia troppo tardi. Prima di subire quel salto generazionale che elimina i personaggi dalla memoria collettiva. Forse è per questo che ho sognato di comprare un biglietto di sola andata.
Oppure di sparire di nuovo, lasciando a pochi appassionati la visione privata di proiezioni minime; risparmiarsi la patetica uscita di scena di una star piena di nostalgie e cominciare a declinare mio malgrado qualche amico al passato.
a.