giovedì 29 marzo 2012

Ciao Vecchio! - Day DCCVIII


Un paio di mesi fa eravamo al Verge di Bricklane, un locale all'inizio della strada dalla parte di Shoreditch Station, in cui andiamo qualche volta con gli altri per finire il weekend con un debriefing riabilitativo. Tra l'altro l'entrata è quella che si scorge alle spalle di Cesare Cremonini quando si incontra con il protagonista ed un altro tizio nel suo video di “Dicono di me”. Prima di andarsene dopo aver terminato il proprio turno, uno dei baristi che lavora lì almeno da quando abbiamo cominciato a frequentare il posto, venne come al solito a scambiare qualche chiacchiera con noi al tavolo. Poi saluto tutti con un sorriso, rivolgendosi a me, e soltanto a me, con "Ciao vecchio!".
Ormai è un po' che ci ritroviamo in quel bar per smaltire il sabato sera. Non è mai troppo affollato ed il volume della musica permette di sopportare bene il mal di testa che accompagna ogni after-party. Il tipo in questione quindi ci conosce bene ed abbiamo anche la confidenza per raccontarci un po' delle storie reciproche. Il nome ce lo ha detto sicuramente e gli altri lo ricorderanno tutti, io ovviamente l'ho perso dietro qualche birra e dentro i nuovi capelli bianchi. Comunque è spigliato come solo i barman professionisti sanno essere ed anche giovanissimo, ha metà secca dei miei anni. La prima volta che lo abbiamo incrociato dietro le spine della birra ha iniziato subito a parlare, ma dopo mezz'ora che mi sporgevo sul bancone per cercare di capire cosa dicesse ed al mio dodicesimo "sorry", deve aver realizzato che oltre ad essere vecchio ero anche sordo, e soprattutto che ero italiano. Ha quel punto ha premuto quel tasto di commutazione segreto, che è nel cervello di ogni poliglotta, e che io non ancora non ho trovato trovato nel mio ed ha ricominciato tutto il discorso in veneto! Abbiamo così scoperto che ha uno dei genitori del profondo nordest ed anche se nato a Londra e cresciuto nei pub, ha coltivato un dialetto degno di un leghista a Pontida.

Quindi quell'uscita la si potrebbe imputare ad un eccesso di confidenza o forse non gli ho mai neanche sottolineato abbastanza la mia sensibilità nei confronti dei discorsi legati al tempo. È anche possibile che nella commutazione linguistica si perda la riservatezza britannica per ritrovarsi “socievolmente” italiani.
Qualunque sia la ragione lasciò cadere quel macigno tra noi ed usci spensierato per godersi quel che restava della notte.

Il suo saluto invece rimase sospeso tra me e gli altri per degli istanti pieni di imbarazzo durante i quali cercai di nascondere i capelli neri con la forza del pensiero e distendere le rughe intorno agli occhi spalancandoli grottescamente fino a sembrare un Alieno di Roswell. Alla fine per fortuna intervenne Lorenzo, che è pure lui del nord-est come il barista guascone, sostenendo che dalle loro parti quell'espressione, è un modo piuttosto comune di salutarsi, a prescindere dall'età. Mentre ci spiegava queste dinamiche sociologice, tutti trattenevano il fiato rimbalzando lo sguardo tra lui e me per capire se il discorso facesse presa nel mio proverbiale scetticismo. Alla fine quando videro che tornavo a delle espressioni umane, esplosero contemporaneamente in una sporta di ovazione collettiva, scambiandosi pacche sulle spalle e indicando il salvatore con manate in aria come a dire “lo sapevo io...”.
Ed in effetti la speculazione del mio amico triestino era solida e strutturata per cui non ebbi davvero difficoltà a credergli. Solo che oltre ad essere un abile oratore Lorenzo è anche un caro amico, anzi credo di poter dire che è il migliore che io abbia qui a Londra. Mi vuole bene e soprattutto in questo momento per me “irrequieto”, so bene che potrebbe venir meno alla sua tanto apprezzata onestà intellettuale per la mia stabilità mentale.

La questione quella sera venne risolta con un brindisi ai miei anni invisibili, ma la mattina dopo ero pronto per affrontare l'emorragia di gioventù dalla mia pelle.
Davanti a me lo spettro del giorno in cui per la prima mi avrebbero lasciato il posto a sedere sul bus .
Non che sia così sprovveduto da non aver mai considerato tattiche preventive nei confronti dell'effetto vintage. Solo che, escludendo a priori l'ipotesi della tinta ai capelli (ho qualche volta carezzato l'idea di colorarli verde militare quando saranno tutti bianchi ma non ho mai trovato sfumature adatte...) fino ad ora mi ero limitato a pratiche saltuarie ed improvvisate che si concentravano nei mesi invernali quando il freddo, più che la paura di perdere appeal, rendono obbligatoria qualche precauzione.
Quindi capitava che prima di entrare nel letto spalmassi sulle mani quantità massicce di crema idratante, talmente sproporzionate rispetto alla superficie disponibile che il corpo si rifiutava di assorbire costringendomi così ad addormentarmi in posizione supina, con le braccia fuori dalla coperta e le dita incrociate sul petto.
Quando mi svegliavo la mattina erano gonfie come marshmallow e del tutto prive di sensibilità.
Comunque è un trattamento che pratico ancora oggi, anche se con l'esperienza ho perfezionato le dosi e regolarizzato le applicazioni.
Come pure ho inserito nella routine di ogni giorno la crema per il corpo dopo la doccia. Prima la utilizzavo soprattutto per ovviare a quel fastidioso prurito che prende alle gambe ed alla schiena con l'arrivo delle prime tramontane mentre ora ha finalità prettamente estetiche.

Ora quasi non mi lavo se non ho la possibilità di idratarmi subito dopo (quando il corpo è ancora umido perché è così che va usata!).Certo perché ora la situazione era molto più seria ed il rischio concreto.
Claudia lo scorso natale, come già scritto altrove, aveva provato a suggerirmi uno spunto di riflessione sui segni del tempo regalandomi una crema antiage per il viso, ma come al solito, rifiutando ottusamente ogni idea di invecchiamento, avevo attribuito al gesto un valore ironico, nel senso originario della parola, ovvero <> (Giovani, carini e disoccupati - cit.) e l'avevo riposta nel cassetto con il famoso totem di “Inception”.
Ma dopo quel “Ciao vecchio!” non potevo più far finta di nulla, e le rassicurazioni del mio amico non mi avevano affatto tranquillizzato.
Così da allora nel cassetto accanto al letto non manca più la crema viso, quella mani ed il burro cacao che anche se ancora senza un ferrea disciplina applico prima di andare a dormire.
Molto più rigoroso sono invece con lo stesso set che porto nello zaino quando vado a lavoro e che per star dietro ai miei tempi da centometrista, sono costretto a tirar quando sono già sulla Northern Line. Come un novello Fantozzi ho a disposizione tre fermate, da Old Street a London Bridge per punteggiarmi il viso delicatamente e poi spalmare la magica pozione con movimenti circolari. Mentre per le mani devo sfruttare il passaggio sulla Jubilee Line da London Bridge a Southwark (Non provateci nemmeno! La parola si trova su Wikipedia nella “Lista dei nomi inglesi dalla pronuncia controintuitiva” - Southwark, Greater London – /ˈsʌðərk/; (sŭdh′·ərk); locally [ˈsʌvək]; (sŭv′·ərk)).
Ovviamente non sono ancora arrivato a portarmi uno specchietto da cipria per verificare la riuscita delle operazioni e per il momento mi quindi limito a verificarla dalle espressioni di quelli che mi siedono davanti mentre tiro fuori tubi e flaconi dallo zaino e mi spargo roba ovunque.
Ad ogni modo dopo qualche settimana di trattamento mi sentivo piuttosto soddisfatto dei risultati raggiunti ed ottimista sull'evoluzione, finché una decina di giorni fa, mentre correvo come al solito da una lavoro all'altro, un signore con una reflex digitale enorme mi ferma e mi chiede se può fotografarmi per un suo progetto di ritratti urbani. Sapete bene quanto sia timido all'obiettivo e quanto mi si debba pregare in queste situazioni. Quindi neanche il tempo di lasciargli spiegare il suo libro ed ero lì a sfoderare la mia famosa magnum mentre lui cercava lo sfondo migliore per contrastare i dettagli. Tre click sintetici e poi lo scambio di indirizzi per farsi mandare gli scatti via posta elettronica.
Dopo due ore mi arriva la sua mail con oggetto “Yes, but”?
Ora è vero che ero nel mezzo di una crisi nerissima, ero così sottoalimentato da pesare 63 chili scarsi, che dormivo 4 ore per notte e che per di più quel maniaco aveva smarcato il mio 3/4 migliore, per di più usando una focale talmente corta da rintracciare ogni ruga e già gli orecchini erano fuori fuoco< però ero sul serio convinto, come Ugo Tognazzi di “Romanzo Popolare”, di essere ringiovanito in maniera evidente. Eppure le foto, nonostante avessi seguito il motto di qualcuno per il quale "Se sorridi vengono meglio" (vabbè lei lo dice perché sostiene che la vita va affrontata nello stesso modo), francamente non erano riuscite come me l'aspettavo.
Così da quando ho visto quegli allegati ho preso due importanti decisioni: la prima è che nessuno vedrà mai quegli scatti a grandezza naturale. La seconda è che non mi avvicinerò mai più ai “Priority Seats”.
Almeno finché non avrò un figlio :)

a.

mercoledì 21 marzo 2012

L'estate con Mrs L - Day DCC

Lentamente una percezione più chiara, un'idea sovraesposta, cominciò ad insinuarsi in mezzo al nero dell'incoscienza. Una lama di giorno le taglio la sottile fessura che dimenticava sempre aperta nell'occhio destro, quello Mrs L si ostinava ancora a pensare fosse il sinistro. "Fuck off" rantolò per il sonno che ormai stava sfuggendole via, mentre con un sorriso impastato ripensava a tutte le volte che Lui l'aveva ripresa per quel linguaggio sfacciato. Sapeva bene che non sarebbe più riuscita a togliersi quel sussulto rock dalle cattive abitudini ma non le dispiaceva affatto.
Poi la consapevolezza improvvisa di un sole troppo generoso per i ritmi che aveva deciso di imporre a quella mattina di rincorse le scarico addosso un panico da fuggitiva.
Lo scatto del braccio trovò il telefono dove la sua ansia improvvisa sperava che fosse. Il display invece non le venne in soccorso rifiutandosi di accendersi. Morto.
"Shit!". Ecco un'altra malerba che avrebbe faticato ad estirpare da quel giardino incolto che era il suo vocabolario da strada. Ma questo stavolta le usci secco, come la gola improvvisamente morsa dalla paura. "Fucking mobile!".
Ormai non si conteneva più, fidando in un condono tombale per tutte le ragazze sboccate del pianeta. Sapeva che non si sarebbe dovuta fidare di quella trappola, ma la sera prima era arrivata a casa troppo stonata e quando aveva realizzato di doversi imporre un'alzata precoce stava già fermentando nel letto e lei era troppo "lazy" per alzarsi di nuovo a prendere il telefono "buono" dalla borsa. Così aveva pescato nel cassetto del comodino l'altro, quello improponibile, come il tipo cui apparteneva un tempo, e dopo aver impostato la sveglia era scivolata nell'oblio dei giusti recitando tutti gli scongiuri che era riuscita a ricordare.
Adesso era oltre ogni più criminale ritardo e correva come una scippatrice verso il cab fermo dall'altra parte della strada. In mano la carta di uno snack al cocco e in bocca, ovviamente, una Pall Mall.
Il tassista impiegò troppo tempo per arrivare a Stanstead, regalandole così il set perfetto per una scenata Punk che sognava di interpretare da quando aveva iniziato a drogarsi coi monologhi di Joe Strummer al London Calling.

Davanti all'aeroporto trovò il tempo per la terza sigaretta in due ore e per rileggere quell'avanzo di Bounty che ancora sanguinava cioccolato al latte. Era lo stesso che lei gli aveva appiccato sulla porta di casa, scappando dall'ennesima collisione tra le loro orbite, dopo che Lui aveva minacciato di sparire su di un aereo il giorno dopo.
Lo aveva attaccato con una cicca dopo averci urlato sopra "Amami se hai coraggio!". Si era poi persa tra i block dell'East End, lungo la strada del ritorno, un po' per la sua frivola incapacità a memorizzare le strade, molto di più per la sua dipendenza dall'adrenalina del rischio. Dopo aver vagato per un paio di ore birra alla mano si era ritrovata davanti casa a fissare quello stesso pezzo di carta attaccato al suo campanello. Sotto alla sua dichiarazione d'amore la calligrafia di Lui aveva lasciato un "13" e la sua di provocazione: "Fermami se ce la fai".

Ovunque Lui avesse deciso di rifugiarsi sarebbe partito sicuramente dall'aeroporto in cui ora Mrs L si trovava in quel momento. Su questo non aveva dubbi per una serie infinita di ragioni. Il numero invece non riusciva a tradurlo in informazioni comprensibili.
Quando infilò l'entrata comunque l'una PM era già volata via da 15 minuti. Corse fiduciosa al tabellone delle partenze ma il Gate 13 portava i passeggeri a Sydney e lei sapeva che se c'era un posto dove Lui non sarebbe mai andato era l'Australia. Allora contò 13 accessi di Check-In e si mise a spiare tutti viaggiatori in fila rimanendo per un attimo intrappolata da quelle espressioni piene di storie trattenute a stento. Di Lui nessuna traccia. Doveva cercarlo altrove.
In un unico piano sequenza scarrellò quindi 13 cabine telefoniche, 13 bancomat e 13 file di poltroncine in attesa di un decollo. Poi spese metà della caparra appena riscossa per comprare un biglietto qualsiasi e potersi infilare nella zona grigia dei Duty Free, ma Lui non era neanche lì. Lui non era da nessuna parte.
Forse aveva sbagliato aeroporto o forse era arrivata in ritardo.
Magari Lui l'aveva guardata tutto il tempo da una qualche posizione privilegiata compiacendosi per ogni sua inversione.
Poteva davvero essersi inventata tutto e quel gioco di sfide rappresentava l'ennesima provocazione di una partita che non avrebbe mai vinto.
Sentiva il bisogno di fumare ancora e uscì sbloccando una porta antincendio che inizio a suonare furiosamente.
Tornò in strada, infilò la mano nella borsa e tirò fuori il pacchetto blu che custodiva l'ultima dose, quella capovolta dai desideri inespressi.
Chiese da accendere ad un pilota che la stava rincorrendo con gli occhi da quando era scesa dal taxi. Accese inspirando lentamente, senza lasciargli mai lo sguardo, turbare era la sua passione primitiva, non poteva farne a meno neanche in situazioni come quella.
Si sedette a terra ripensando a tutte le volte che Lui non aveva voluto dividersi la stessa sigaretta sotto casa: "Stronzo egoista, meglio così!", concluse provando a convincersi di una qualche inevitabile fortuna.
Poi la tasca del giacchetto in jeans inizio a vibrare.
Lady Gaga la informava che era in arrivo un messaggio. Anzi due, tre, quattro.
Ormai aveva perso il conto dei txt. Afferrò il cellulare e schiaccio automaticamente tre volte lo stesso tasto senza badare al mittente. Non ne aveva bisogno. Quando il cellulare non smetteva di accatastare messaggi in serie, era Lui che voleva raccontarle una storia.
Per un attimo considerò l'idea cancellarlo senza guardare ed uscire per sempre da quel gioco. Ma non poteva resistere alle lusinghe di quell'ennesima tentazione, alla voglia di un nuovo racconto ed iniziò a leggere: "Improvvisamente una lama di giorno le taglio la sottile fessura che dimenticava sempre aperta all'occhio destro...".

NOTE
Questo non è racconto londinese.
Questa è una storia iniziata come spesso mi capitava l'anno scorso, sul cellulare, ma poi finita in una mail perché lo spazio del mio vecchio Samsung non mi permetteva di andare oltre i 429 caratteri.
Mrs L è il modo in cui chiamavo Virginia, una persona importante della mia vita a Londra. Non ricordo neanche più il perché di quel nome però era quello che le urlavo da sotto casa quando passavo a trovarla di tanto in tanto nella sua soffitta di Angel.
Vivevo ad Old Street meno di due chilometri e in bici erano 5 minuti, forse 15 a piedi.
Virginia però ha un carattere lunatico che solo se la conosci puoi capire fino in fondo. Poteva capitare che dalla chiamata al mio arrivo cambiasse di umore ed una volta lì si inventasse qualche motivo plausibile per rimandarmi a casa. Le prime volte successe spesso.
Così per tenere viva la sua curiosità iniziai a scriverle mentre andavo da lei. In rima o in prosa, poesie minime e racconti brevi. Spesso percorrevo il tragitto senza mai staccare gli occhi dal display, portando la mountain bike a mano per lunghi tratti.
Poi una volta arrivato sotto casa sua suonavo il campanello della bici ed urlavo “Mrs L”. Lo so che può sembrare infantile e stucchevole ma non conoscete Virginia e quanto possa essere lontana dall'idea di “romantico” nel senso banale del termine.
Neanche si affacciava, contavo venti e lei era al portone con una birra gelata ed io seduto sul marciapiede con due sigarette in bocca.
È andata avanti per qualche mese con lei, da luglio ad ottobre del 2010. Poi ci siamo separati, in maniera teatrale come piace a noi. e come avevamo vissuto insieme fino a quel momento.
Poi siamo ignorati, odiati, provocati ed infine abbiamo ritrovato un equilibrio, per quanto questa parola possa aver senso con una come lei, di incontri periodici ed intensi.

Virginia venerdì se ne torna in Italia, perché a volte è giusto anche ritornare. Probabilmente non per sempre perché non ce la vedo ancora a metter su famiglia in Abruzzo, però non ci vedremo per un po' e prima di partire mi ha voluto rimandare questa storia e la sua mail di risposta.
Mi rendo conto che è scritta ancora male nonostante abbia cambiato qualcosa, ma non volevo stravolgerla perché tutto nel testo è riferito a dettagli di quei tre mesi: dal mio bounty, al suo girovagare notturno, dai Clash, all'occhio semichiuso. Fino al suo inglese “rock”.
Mi rendo anche conto che qualcuno non sarà interessato né al testo, né alla nota finale, però volevo pubblicarlo qui perché nonostante glielo abbia detto spesso, forse Virginia non ha mai capito quanto sia stata importante per me a Londra e questo mi sembra il modo migliore per farglielo capire.
Buon viaggio Mrs L.

lunedì 12 marzo 2012

Il Gatto con gli stivali. Una storia vera (anzi due) - Day DCXCI


Giovedì scorso mi sono visto con Alberto, un ragazzo con cui ho lavorato da Biagio i primi tempi che ero qui a Londra. Gli avevo mandato un messaggio il giorno prima perché era un da po' che non ci sentivamo e anche perché sapevo che sarebbe dovuto passare in questo periodo per qualche giorno. Avevo voglia di vederlo e quello sarebbe stato il momento perfetto per una lunga chiacchierata e due birre, come quando ci capitava qualche volta in passato. Dopo 5 minuti mi aveva risposto scrivendomi che era appena sbarcato all'aeroporto di Stanstead e che ci saremmo potuti incontrare direttamente il l'indomani per una pinta a Soho.
Così il giorno successivo ci siamo trovati in un pub del centro con la voglia di aggiornarci avidamente su tutto quello che era successo nel frattempo. Mentre eravamo seduti a ridere delle solite stupidaggini e lagnarci delle imperfezioni della vita è entrato uno di quei tipi che i primi tempi che arrivi in Inghilterra hai la tentazione di seguire per capire cosa facciano nella vita. Se hanno un guardaroba, una casa e delle abitudini coerenti a quella immagine surreale che portano in giro con tanta disinvoltura. Oppure se sono solo il frutto della voglia di stupire, endemica in questa cultura in cui la rincorsa all'eccentrico è uno stile diffuso.
Dopo un po' impari a non restarne più sorpreso perché qua è difficile trovare un filo logico a ciò che ti capita intorno o almeno guardi con noncuranza per nascondere quello stupore da turista che dopo qualche mese di vita qui non puoi più permetterti. Sostanzialmente diventi uno snob che finge di non sorprendersi più di nulla e indica queste situazioni agli amici appena arrivati o a chi è in visita, per gustarne il disorientamento e sfoggiare di contro un'impassibile distrazione, salvo poi spiare di nascosto ogni dettaglio.

Comunque il personaggio di questa storia non era neanche particolarmente originale. dopo quasi due anni ne abbiamo visti di migliori. La giacca pesante a quadretti, il gilet di tela e bottoncini portato a pelle e i pantaloni a scacchi sapientemente troppo corti per mettere in mostra le scarpe nere bombate lo rendevano più adatto alla parte della volpe nel musical di pinocchio che a quella di “Man of the night”. Neanche la bombetta piena di piume e pietruzza calzata sulla pelata lucidissima bastava a dargli il giusto fascino.
Divertente sì, ma nulla a confronto, giusto per fare un esempio, alla vecchietta di OldCompton Street, stessa zona, incontrata mesi prima con Nancy. Lei aveva quella tipica sobrietà anglosassone. Un perfetto coordinato nero e bianco di Tailleur Chanel, camicia, guanti di pizzo e pochette. Era commovente come una nonna ed i suoi morbidi capelli bianchi la rendevano ancora più elegante. In realtà non l'avremmo notata se non avesse attraversato quella via affollatissimo e colorata con una enorme rivista patinata in mano, che mostrava ai passanti ridendo ogni volta come se la stessero sottoponendo alla tortura del solletico.
Fermava chiunque incontrasse, donne, uomini o coppie che fossero, mostrandogli le pagine interne del giornale ed esplodendo contemporaneamente in una rista piena e liberatoria. Eravamo troppo incuriositi da quella scena così dopo averne studiato un po' la traiettoria ondivaga ci siamo decisi a cambiare marciapiede per intercettarla.
Arrivati a tiro a la scena si è ripetuta con lo stesso copione: ci a puntati diretta, si è avvicinata aprendo una delle pagine centrali di quel grosso volume e fissandoci negli occhi per cercare la nostra attenzione lo ha girato per metterci a favore di lettura. Mentre lei nuovamente impazziva di gioia isterica io e Nancy che eravamo pronti a sfoderare un sorriso di comprensione, ci siamo invece congelati (ovviamente per motivi diversi) con lo sguardo su quelle foto che ritraevano nudi integrali di bellissimi, superdotati e soprattutto eccitati, modelli di quella che era una rivista porno per gay! Vivevamo a Londra entrambi da più di un anno ormai ma quello era "sorprendente" anche per noi. Così mentre noi riordinavamo lei idee, l'arzilla signora ci salutava proseguendo oltre con qualche borbottio e tagliando l'aria in alto con la mano, come a rimproverare se stessa del tempo perso in gioventù dietro la rigorosa etichetta britannica ed allo stesso tempo ammonirci dal non vivere con la stessa inutile prudenza  finché erravamo ancora nell'età giusta per godere di tanta grazia.

Dopo incontri di questo spessore quindi, era stato abbastanza facile per noi quella sera, lanciare uno sguardo distratto al tipo, per tornare subito alle nostre confidenze. Il resto del locale invece non lo aveva neanche registrato. Evidentemente lui non aveva gradito la stroncatura della sua interpretazione ed era corso ai ripari chiamando quella che forse era la volpe nello spettacolo che avevano in programma. Questo non solo era entrato in scena indossando un assortimento così improbabile di indumenti da potero imputare soltanto ad un lavaggio sbagliato, ma si muoveva tra i tavoli con la sua birra gocciolante in una mano ed una massiccia sega circolare nell'altra.
Era proprio una sega da falegname, forse serviva all'attore che interpretava Geppetto, di quelle da banco, con la base pesante ed il braccetto per alzare la lama, ed appoggiandola con decisione sul tavolo del suo amico come se avesse sistemato l'attrezzo, ci aveva lanciato un'evidente occhiata di sfida.
Alberto non era riuscito a trattenere un commento, comunque pieno di dignità: ”beh siamo a Londra... che fai non ti porti una sega al pub?!”. Intanto il resto degli avventori continuava a collezionare annoiato fondi di schiuma esausta.
Lo show aveva sortito l'effetto desiderato e i due sembravano godersi lo stupore suscitato nei due italiani sprovveduti. Anche noi ne avevamo abbastanza di quello spettacolo era il momento della sigaretta finale prima del commiato. Un ultimo sguardo agli attori ed eravamo fuori per le ultime battute. Alberto continuava la serata con gli altri amici arrivati con lui dall'Italia, mentre io me ne andavo a casa senza altre tappe intermedie. Era stata una serata all'altezza delle aspettative. Abbiamo sempre un sacco da raccontarci quando ci incontriamo e ci viene naturale affidarci l'un l'altro per avere uno sguardo diverso sulle nostre scelte. Il saluto così ogni volta è sempre malinconico anche se abbiamo la certezza che non mancheranno altre occasioni. L'abbraccio è stato forte e sincero. Un po' più lungo di quelli che ti dai qua con gli amici che rivedrai la settimana successiva. Giusto il tempo vedere il gatto che si allontanava dal pub lentamente, infilandosi una mano dietro, sotto la giacca, per tirarne fuori una soffice, vaporosa e lunghissima coda.

Ve lo giuro. È tutto vero.
Chiedete ad Alberto.

a.

giovedì 1 marzo 2012

Non chiedetemi perché - Day DCLXXX

La prima volta che ho aperto gli occhi stamattina erano le 04:06, ho sentito uno dei miei coinquilini, il postino inglese di 80 anni (ma quando vanno in pensione i postini in questo paese?) Che andava in bagno, si raschiava la gola come al solito un paio di volte nel water e poi usciva a consegnar la corrispondenza per la Royal Mail.
È un postino con la bici lui, non ha un'olandese nera coi freni a bacchetta com'è tradizione, la sua è una mtb usata ed anche malmessa, però si muove tra i block dell'East End pedalando ed a me piace tantissimo questa idea perché mi ricorda Pippo, il suo collega di quando ero un bambino ad Oriolo Romano, il paese da cui provengo, che mi aveva fatto venir voglia di essere come lui [e se avessi dato retta a quella prima intuizione forse adesso sarei un partito migliore con cui avere figli].

Ad ogni modo era impossibile non restarne affascinati: era alto e magro e coi baffetti sottili, la divisa cenere ed il cappellino inamidato. Elegantissimo. Il modello di postino per le immagini dei mestieri nel sussidiario delle elementari. Lui si che aveva l'olandese nera coi freni a bacchetta ed anche la borsa di pelle legata davanti al manubrio. Pure il campanello d'argento c'aveva (va bene lo so che non era d'argento 'che mica vivevo nel far west) e lo usava sempre per avvertirti del suo arrivo.
Io ero molto piccolo allora e quando sentivo quel suono uscivo a salutarlo, perché mi piaceva tanto. sul serio, volevo prendere il suo posto. Anzi io volevo proprio essere lui. Anche se in realtà non avrei mai desiderato che Pippo andasse in pensione perché era davvero il postino perfetto. Mia madre apriva il cancello ed io gli andavo incontro. Lui non parlava mai, però sorrideva sempre e qualche volta faceva anche il verso di sollevarsi il cappello stringendo la visiera tra l'indice ed il pollice, poi però non lo toglieva mai perché è così che si fa quel gesto. Come si vede nei film.
Ha consegnato lettere e pacchi nel mio paese per anni ed anche se qualche volta la bici non ce l'aveva perché magari aveva bucato andando per le case della campagna oppure era stanco di pedalare, restava comunque bellissimo e commovente.

Poi un giorno Pippo, di cui non ho mai saputo il vero nome, perché nei posti come quello in cui sono nato io i nomi delle persone alla fine te li scordi e rimane solo quello che gli hanno scelto gli amici una sera d'estate dopo che uno è caduto in un cespuglio o quello che aveva suo padre prima di lui; un giorno dicevo, Pippo è andato in pensione ma io ho continuato a vederlo per anni al bar stanno tutti quelli che nel mio paese vanno in pensione.
Giocava a scopa col il fernet da un lato e la sigaretta tra le dita della mano con cui teneva le carte ed anche se gli altri urlavano e bestemmiavano lui restava in silenzio e non perdeva mai la calma e continuava a sorridere come quando ci portava la posta. Anche se al tavolo delle carte napoletane vestiva la camicia con le maniche arrotolate, io ho continuato a salutarlo come se indossasse ancora la divisa color cenere e lui rispondeva come se si ricordasse di me. Io lo sapevo che lui non immaginava chi fossi. Chissà quanti altri bambini che volevano diventare come lui c'erano al mio paese che uscivano per vederlo ogni volta che arrivava. Però ero contento lo stesso. Pure se la prima volta che l'ho visto ai bar ho scoperto che aveva pochissimi capelli e forse il berretto non lo toglieva mai del tutto anche per quel motivo.
Era sempre Pippo.
Al suo posto arrivò un altro postino con la vespa bianca ed un casco rosso aperto, senza visiera, che teneva la corrispondenza tra le gambe in una sacca di tela sintetica blu e gialla fluorescente.
Questo postino con la vespa non me lo ricordo come si chiamava. E neanche il soprannome mi ricordo. O forse sì ma non mi va di scriverlo perché lui non lo avrebbero mai messo sulle pagine dei mestieri nel sussidiario. quando si avvicinava faceva un rumore terribile di marmitta vecchia e ammortizzatori scarichi.
Poco prima di arrivare al nostro cancello spegneva il motore e percorreva un largo mezzo giro nello spiazzale davanti casa per mettersi in traiettoria, quando l'inerzia del motore finiva allargava le gambe e cominciava a spingere la vespa come se stesse remando con i piedi ed intanto suonava quel terribile campanello elettrico delle vespe.

Non c'era niente di elegante in questo postino.
Vestiva dei pantaloni dello stesso colore della sacca di tela sintetica, enormi e tutti spiegazzati ed una camicia a righine sottili aperta sul davanti che lasciava intravedere i peli. Quando faceva freddo aveva anche una giacca a vento. Pure quella blu e fluorescente. Arrivava alla cassetta col fiato grosso e tutto sudato, anche se era inverno perché ogni volta calcolava male la distanza e doveva remare per arrivare fino in fondo. Neanche scendeva dalla vespa per consegnare la posta. Si aggiustava il casco rosso spingendolo col palmo aperto sulla fronte ed allungava le buste attraverso la ringhiera [che in inglese si dice railing].
Io intanto ero cresciuto ed anche se mia madre insisteva io non andavo più a prendere la posta perché dicevo che ero troppo grande ormai e che doveva andarci lei che a me non interessava più. Però se ci fosse stato ancora Pippo io ci sarei andato ancora di corsa.

Un giorno poi Pippo non l'ho più visto neanche al bar dei pensionati e mia madre mi disse che era malato e non usciva molto.
Io sarei voluto andare a trovarlo, volevo che si ricordasse di me e che lui mi regalasse il cappello o la borsa, ma quelle le aveva ridate alla posta e poi mi sembrava troppo una scena da film. Così non ricordo l'ultima volta che l'ho visto sorridere mentre giocava a scopa.
Mi è successo sempre così anche in seguito. Non ho mai saputo prima quando era l'ultima volta di una cosa. L'ultima volta che indossavo quel maglione, che andavo in un posto, che baciavo la mia ragazza. Ed è stato meglio così altrimenti col mio carattere drammatico sarei impazzito di tristezza mentre lo facevo.
Alla fine Pippo il postino è morto ma io vivevo già lontano da Oriolo ed anche se mi è molto dispiaciuto non sono andato al funerale.
A dire il vero non volevo più neanche fare il postino da un sacco di tempo.
Però quando capita che torno in paese e vado al cimitero con mamma per portare i fiori a mio padre ogni tanto ci passo dove sta la tomba di Pippo e nella foto sembra ancora vivo.
In silenzio, sorride.

a.